giovedì 7 giugno 2007

Internet nei posti di lavoro (prima puntata )

Come va regolamentato l’uso di Internet sul posto di lavoro? La risposta non è semplice perché, su questo terreno, entrano in conflitto due interessi, ugualmente tutelati dall’ordinamento, ma in sostanziale contrasto tra loro. Da una parte esiste il diritto del datore di lavoro di evitare che il dipendente abusi di uno strumento che gli viene messo a disposizione solo per eseguire i compiti che gli sono assegnati. Attraverso il computer d’ufficio possono essere commessi reati e possono essere prodotti danni per i quali, a norma di legge, lo stesso imprenditore sarebbe responsabile per omesso controllo. Dall’altra parte entra in gioco la pretesa del lavoratore di non essere sottoposto a controlli a distanza che riducano la sua dignità o limitino la sua libertà. Si tratta quindi di individuare un criterio attraverso il quale risolvere il conflitto di interessi appena descritto. Per farlo, in modo concreto e senza arenarsi nelle secche della Teoria alla quale il mondo del lavoro è notoriamente allergico, occorre però andare in profondità e capire cosa, dietro questi interessi, possa nascondersi. Allora togliamo il velo dell’ipocrisia che spesso nasconde le reali posizioni delle parti nei rapporti di lavoro. La tesi ufficiale del datore di lavoro è questa: devo esercitare un controllo sull’uso che dello strumento informatico fa il mio dipendente, proprio per evitare di patire le conseguenze negative di eventuali abusi da parte del lavoratore. In realtà, dietro questa giusta pretesa, spesso si nasconde il desiderio di controllare il lavoratore, misurarne rendimento e produttività, come si una fare nel lavoro a cottimo, mettendo il dipendente in una condizione non solo materiale ma anche psicologica di disagio e di inferiorità. Ed il lavoratore? Nemmeno lui è esente da vizi o retropensieri. Dietro la sua pretesa di non essere sottoposto a controlli, il lavoratore spesso cerca di creare una sfera di intangibilità della propria attività in azienda che gli consenta sostanzialmente di fare ciò che vuole, a spese dell’impresa per la quale lavora. Da qui nasce la contestazione imprenditoriale secondo cui la tutela della privacy e lo Statuto dei lavoratori sono usati strumentalmente per difendere privilegi ingiustificati.

Come si vede si tratta di una questione delicata, nella quale i reciproci sospetti e le accuse incrociate contengono una buona parte di verità.

Chiarita la effettiva natura degli interessi in gioco, mi chiedo in che modo possa essere composto questo conflitto, lasciando i piatti della bilancia in sostanziale equilibrio.

Esistono dei principi ai quali ispirarsi per risolvere la questione. Sulla base dell’esperienza condotta su questo tema nei diversi Paesi europei, i punti fermi finora individuati sono: a) il rispetto del principio di proporzionalità, in base al quale le limitazioni della libertà e dei diritti individuali devono essere proporzionate allo scopo perseguito; b) l’obbligo di consultare le rappresentanze sindacali o gli organi paritetici di impresa prima di introdurre nuove tecnologie; c) l’obbligo di informare preventivamente i lavoratori dell’esistenza di dispositivi per la raccolta di dati personali.

Non illudetevi: questo non basta per risolvere la questione. Occorre andare ancora più in profondità. Nella prossimo post vedremo come sia possibile tradurre in pratica questi principi per regolare l’uso lavorativo degli strumenti informatici, sfatando alcuni luoghi comuni su questo argomento, anche alla luce di un recente provvedimento del Garante.

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